19 set 2013

UN'AMICIZIA BASTARDA

Gustave DORE' - ANDROMEDA


Charlie se ne andava in giro di qua e di là tutto il giorno.
Gli piaceva gironzolare libero.
Non conosceva requie.
Un soggetto autistico, potrebbe essere, forse, la diagnosi di un medico della testa.
Ma Charlie, nella testa, aveva tanti pensieri, tante idee, tante cose da scoprire.
Era curioso.
Curioso e volubile, per essere più precisi.
Si.
Si, certo, non si può dire che la costanza fosse la sua caratteristica migliore.
Se si appassionava d una cosa, la seguiva a lungo, certo, con un'irrequietezza che si potrebbe dire come quella di un detective.
Non tralasciava niente di intentato per giungere al bandolo della matassa.
Era curioso, si, l'ho detto.
Voleva scoprire ad ogni costo cos'era, in realtà l'oggetto del suo interesse, del suo desiderio, della sua ricerca.
Un segugio di naso fine.
Si.
Proprio così, un segugio finissimo.
Ma, alle volte, quando meno uno se l'aspettava, imprevedibilmente, volubilmente, ecco, alle volte, d'improvviso, lasciava andare le sue ricerche, che erano procedute fino ad allora con  accanimento a dir poco inusuale, per gettarsi su una nuova pista.
Senza alcun apparente motivo, in certi momenti nessuno poteva capirlo, Charlie, voltava la sua testa dall'altra parte e, come preso al laccio da chissà quale nuovo interesse, si buttava caracollando in una direzione fino ad allora del tutto priva di interesse.
Alla ricerca di qualcosa di nuovo.
A caccia di chissà quali sogni.

Nel suo vagare libero per la città, Charlie aveva conosciuto tutti.
Invero, la città era piccola e gli abitanti si conoscevano tra loro da quando venivano al mondo.
Ognuno conosceva tutto di tutti.
Si sapeva tutto.
Tutto ciò che ognuno faceva, nella propria vita.
Ed anche ciò che non si faceva.
E così, anche Charlie era conosciuto da tutti.
E, naturalmente, anche lui conosceva tutti.
Era amico di tutti.
Tutti gli volevano bene.
E come non amare Charlie?
Ti veniva dietro quando facevi la corsa mattutina nel parco.
Ti si accucciava a fianco se ti sedevi su una panchina.
Te lo vedevi accanto se eri, al pomeriggio, al tavolo del bar, a prendere qualcosa con gli amici, ad ammazzare il tempo.
Ed anche quando pioveva, o quando il sole spaccava le pietre, se andavi in giro per la città, Charlie lo trovavi sempre, sicuramente, sul tuo percorso.
Era un'istituzione della cittadina, diciamo pure così, come il farmacista, il prete, il maresciallo dei carabinieri e il sindaco.
Prima o poi, con lui, chiunque doveva fare i conti.

Il temporale di quella sera aveva squarciato la sera con una violenza inaudita.
Ne parlarono, l'indomani, la stazione radio della città e anche alla televisione, sul canale delle notizie locali.
Era stata una tempesta imprevista, come una punizione del cielo alla terra.
Anzi, alla città, perchè era stata colpita solo quella piccola città.
Chissà quali colpe si nascondono in una piccola città, se il cielo si trova costretto ad intervenire con tale violenza per ristabilire l'ordine, l'equilbrio, il giusto dosaggio di bene e di male. 
E chissà quali colpe, il cielo, intendeva punire quella sera.
Pareva che i dardi venissero scagliati dalle infinite profondità del cosmo con rabbia e cattiveria.
Erano scudisciate che facevano rabbrividire la superficie della terra.
Ferite che sanguinavano sulla pelle del mondo.
Un sangue liquido, melmoso, denso di fango e di putritudine sgorgava dalle viscere di quelle ferite.
Era un lavacro purificatorio.
Che il cielo aveva mandato sulla città.
Per emendare quel microcosmo urbano da chissà quali colpe commesse, o forse solo immaginate, da qualche parte laggiù.
E quale mostro poteva mai aver commesso turpitudini tanto gravi da far scatenare le ire del cielo in quel modo?
Non si ricordava a memoria d'uomo un'ira divina così terribile e violenta.

Nella piccola città tutti corsero a rinchiudersi in casa, in chiesa, al bar, dentro un portone.
Un riparo.
Un ricovero qualsiasi per sfuggire a quel tormento che schiaffeggiava uomini e cose senza pietà.
Le strade erano lucide come un fiume.
I lampioni tristi piangevano, sgocciolando, lacrime amare.
Anche le gronde, dai palazzi lungo le vie, singhiozzando, lasciavano cadere i loro lacrimoni che ticchettavano esplodendo a terra, sul selciato dei marciapiedi.
Nel pianoro, sulla riva del fiume il fango aveva macerato la lingua di terra sabbiosa che abbracciava il corso del fiume.
Il giunco che si era appena levato, soddisfatto dei languidi baci della corrente fresca che andava verso l'eterno, chissà dove, stava ancora rimettendosi le mutandine.
Dietro una siepe, di fianco, sul lato che costeggia il vialetto del parco, al margine dell'area destinata ai giochi dei bambini più piccoli, dove gli occhi delle mamme, ansiosi e felici, ridevano guardando gli agognati pargoletti scendere di corsa e ruzzolare dallo scivolo di ferro, lì, un pò nascosto, ancora piangeva il vecchio.
Piangeva senza accorgersene.
Il senso di pena, di colpa, di impotenza lo avevano sopraffatto.
Senza neanche chiedergli il permesso.
Senza dargli neppure il tempo di commettere una colpa.
Un peccato, invece si.
L'aveva commesso.
Grave e tremendo.
Tale da suscitare, forse la collera divina che aveva preso le forme di quella tempesta estiva improvvisa e cattiva.

Punizione meritata.
Questo pensò il vecchio quando i primi schiaffi del temporale lo scossero dai recessi della sua mente sospesa.
Gli occhi erano come rivoltati sullo spettacolo interno della sua colpa, tanto erano fissi ed iniettati di sangue.
Dovevano aver assistito ad uno spettacolo orrendo.
Erano sconvolti.
Indemoniati.
Ossessi.
L'acqua a secchi scaricata dal cielo sul suo capo, gelida e scrosciante, avevano avuto l'effetto benefico di una scossa elettrica su un corpo morto.
Il suo cuore ricominciò a battere.
Dopo l'immobile paralisi che era durata tutto il lungo pomeriggio, là, in quell'angolo di mondo flagellato dal peccato.
La colpa no.
La colpa non abitava in quei paraggi.
Non ancora, per quella volta, almeno.
Non ne avuto il tempo, comunque.

Il giunco si distese.
Poi si ritrasse.
Infine corse a ripararsi da qualche parte.
I leggeri vestitini bagnati erano come le fasce dei neonati.
Il giunco tremava.
La siepe parve un riparo provvidenziale.
Più una protezione contro la paura che un reale rifugio contro la tempesta.
Comunque, il tempo non era abbastanza pigro da fermarsi per lasciar sbocciare un'idea migliore.
La piccola Italia, piangendo per la paura corse direttamente verso la bocca del lupo.
C'era un piccolo varco, tra i rami, nel fogliame diventato lucido per la pioggia che scrosciava.
Le foglie ferite si lamentavano, sui ramoscelli di bosso.
La piccola bocca s'apriva al centro della siepe, pronta ad inghiottire la prima preda gli fosse capitata a tiro.
La piccola ninfa, impaurita come una lepre inseguita dal cacciatore, si gettò in quelle fauci indistinte, scorte nella fuga solo all'ultimo momento.
Cieca di terrore, con i capelli appiccicati sulle guance, gli occhi acuti come spilli, la piccola bocca serrata nello sforzo, da bocciolo di rosa, s'era fatta sottile come la lama di quei minuscoli coltellini svizzeri, affilati e chiusi su se stessi.
Sembrava una creatura mitologica.
Una giovane vergine destinata al sacrificio.
Gli dei degli antichi erano crudeli, sanguinari e perversi.
La fame, il desiderio, l'appagamento, troppe volte, costavano la vita di creature innocenti e pure.
Gigli, agnelli, cerve.

Charlie era restato imprigionato in quella serata di tregenda senza neanche sapere come e perchè.
Bighellonando come al solito, s'era intrufolato nel parco verso la fine del pomeriggio, quando le mamme cominciavano già a richiamare i ragazzini per il lento rientro alle incombenze casalinghe, un pò noiose, un pò rassicuranti.
Aveva salutato al suo passaggio i presenti.
E poi, interessato da chissà quali pensieri, s'era diretto, deciso e preciso, verso quel punto che divideva l'area dei giochi dei bimbi dalla riva del fiume.
Da lontano aveva visto un suo vecchio amico e voleva salutarlo.
L'aveva scorto nel fitto del fogliame.
Sembrava nascosto.
Era distratto.
Non s'accorse neanche di lui, quando s'era acquattato ala suo fianco.
Gli occhi, con uno sguardo bonario e mansueto, avevano seguito lo sguardo del vecchio.
La fissità di quel puntare dell'uomo verso la preda non lo aveva sorpreso.
Anche lui usava puntare le prede così.
Sguardo fisso.
Muso deciso.
Postura immobile.
Coda diritta.
Una spada.
Un colpo nella fionda pronto a scoccare.
Un dardo in procinto di fendere lo spazio.

La calda lingua di Charlie, rosa e rugosa, cercò di mondare la paura dal corpo tremante della piccola Italia.
Era una secrezione acida, aspra, velenosa.
Il naso di un cane la percepisce da molto lontano.
E' la paura.
La sottile patina che avvolge i corpi quando sono imprigionati nella gabbia del panico.
Poi, l'attenzione di Charlie, l'ho detto ch'è molto volubile, a volte, si?, l'ho già detto prima, n'è vero?, ecco, l'attenzione di Charlie, governata dalle legge dell'istinto che noi uomini non conosciamo così a fondo come vorremmo far sembrare, l'aveva fatto d'improvviso voltare, di scatto, sul lato di fianco.
Che quasi, scivolando, sul terreno fradicio di pioggia nera e limacciosa, Charlie stava per andarsi a infilzare su un ramo spezzato della siepe di bosso.
Ma era riuscito a tenersi in equilibrio, seppure precario.
E le zampe, le quattro zampe dei cani che hanno una tenuta da fuoristrada che gli uomini non possono raggiungere senza le protesi motorizzate che chiamano auto, appunto, zampettarono, scricchiolando e stridendo, ma tennero in piedi la bestia.
Infine si lanciò, appena riacquistato l'equilibrio sufficiente a sostenere la forza del salto, di nuovo verso il volto del vecchio che emanava l'odore noto dell'amicizia randagia.
Un bacio amorevole.
Un amore fedele.
Così fu suggellata, ancora una volta, quella vecchia amicizia bastarda.

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