2 ago 2013

APPELLO DALLO STATO DI CACANIA

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Cacania, 2 agosto2013.

Caro figlio mio,
ti scrivo per raccontarti, per metterti al corrente.
E' solo ieri che tu sei partito e già, oggi, ci sono grandi novità.
Si, qualcosa l'avevi già intuita, la sapevi già ieri, la capisci, anche se sei ancora tanto giovane.
La città che hai appena lasciato, il povero paese in cui sei nato, erano sull'orlo di un baratro anche ieri.
Ieri, quando ti ho accompagnato all'aeroporto conoscevi già, anche tu, la situazione, sapevi già che era molto instabile il futuro di questo popolo.
La crisi economica morde i poveri cittadini come un cane sempre più rabbioso.
Si vedono in giro, per le strade, quelle di solito affollate e lussuose del centro e quelle meno scintillanti di luci e passanti in abiti eleganti, i segni della povertà che cresce.
E' una delle poche cose che crescono, ormai, qui.
Ogni mattina c'è un nuovo povero che chiede la carità.
Prima erano solo barboni, senza casa, zingari, sbandati, poveri immigrati e disperati.
Ma ora, ormai sempre più spesso, si vedono persone comuni, anziani, disoccupati stendere la mano e mormorare qualcosa d'indistinto, qualcosa che suona come una preghiera.
O come una maledizione repressa.
O come un pianto.
O come un urlo soffocato in un singhiozzo.
Rabbia, disperazione, che differenza fa?

Si, figlio mio, questo lo sai già.
E sai anche che per voi giovani la vita si è fatta come una strada più accidentata e più stretta.
Non si sa più dove conduce.
E non si vedono più i cartelli che, una volta, con dovizia e generosità, indicavano la direzione.
Per arrivare al futuro mancano ancora 7 chilometri.
Dritto, per il senso unico.
Poi, svolta obbligatoria sulla tangenziale.
Ed eccolo là.
Eccolo il ricco paese del futuro.
Col suo bel sole levante che ride.
Giallo.
Allegro.
sonoro.
Prolifico.
Geavido.
Il paese della cuccagna.
Eccolo.
Era lì.
Bastava seguire il cartello.
Ora, invece, noi ti abbiamo reso cieco.
Abbiamo tolto i cartelli.
Abbiamo divelto le rose dei venti che, dall'alto dei loro paletti, dominavano e davano al nostro vagare sulle strade della vita.
Ormai non sapete più che strada fare, che direzione prendere, che linea seguire per arrivare a domani.
Il domani, ve lo abbiamo rubato.

Caro figlio mio, anche questo tu già lo sapevi, ieri, quando sei partito.
Nei tuoi occhi, poichè hai un cuore generoso e gentile, brillava ancora la luce ardente della fiducia.
Una fiducia nel domani, nel futuro, nel destino, nelle forze che la vita stessa, per la tua verde età, ti inocula nel sangue e te lo rende caldo e lo fa circolare a tutta velocità dentro il tuo bel corpo di angelo scesa sulla terra.
Quella luce dà colore alla tua voce e illumina i tuoi giorni.
Ma quando mi hai salutato, di fretta perchè dovevo ritornarmene al lavoro, io quella luce l'ho vista brillare forte, anche se i tuoi mesi appena trascorsi sono stati faticosi, i più difficili della tua breve esistenza di studente, e anche se le ombre del presente appena appena appesantivano il carico delle tue spalle.
Ed io, nel salutarti, non ho pensato che forse c'era anche un altro peso che stava per caderti addosso all'improvviso.
No.
Non ci ho pensato proprio.
Ecco, allora ti scrivo perchè devo raccontarti.
Raccontarti e metterti sull'allerta.
Bene, caro figlio, ormai è giunto il tempo che tu sia cresciuto.
E' arrivato il momento che prendi fra le tue mani le redini della tua vita.
E, anzi, è questo l'appello che ti rivolgo affinchè tu, appena sfuggito, quasi per caso,  da questo paese ferito, ancora libero, in quell'isola lontana in mezzo all'oceano infinito, decida di prendere per mano anche il nostro destino.

Qui, in un breve volger di tempo, solo da ieri, sono cambiate tante cose.
Il paese è finito in mano ai conquistatori che hanno preso i palazzi del potere.
Il loro capo, solo ieri sera condannato da tutti tribunali della repubblica, ha decretato lo stato di emergenza democratica.
I suoi fedelissimi, un esercito di borghesi senza divise, si è precipitato dinanzi al suo palazzo nobiliare e si sono messi a urlare slogan di giubilo e devozione.
I suoi complici politici, gli eletti alle cariche istituzionali, lo stato maggiore, hanno rimesso i loro destini e le loro stesse cariche nelle sue mani.
Si sono riuniti, alla sua presenza, lui, condannato senza più possibilità di appelli, e loro, devoti e fedeli servitori senza dignità, si sono riuniti nel palazzo dove hanno sede le istituzioni parlamentari.
Ed hanno chiuso le porte alla democrazia.
Nel silenzio dei giornalisti, lontani dalla stampa e dall'informazione, nel segreto della grande sala parlamentare, hanno ordito il loro piano.
La televisione ha dato un annuncio sommario.
Uno dei loro rappresentanti, con grandi occhiali quadrati ed un finto riporto di radi capelli scomposti, ha dichiarato, davanti ad una telecamera appostata all'uscita del grande salone, che la decisione, ormai, era stata presa all'unanimità da tutti i rappresentanti del popolo.
Gli eletti s'erano posti nelle mani del loro padrone.
Del loro vero padrone.
Quello a cui rendono onore e hanno giurato eterna fedeltà.

I due rappresentanti del nuovo capo politico di questo pease si sono appena avviati verso il palazzo presidenziale.
Lì, solitario, regna il vecchio presidente ultraottantenne.
Uomo lucido e di grandi principi.
Ma si teme per la sua vita.
Un solo colpo potrebbe essergli fatale.
Ha una grande energia.
Fino ha dimostrato grande coraggio.
E lungimirante lucidità.
Ma stasera tremo per lui.
I due rappresentanti, uno basso, quasi un ano, molto feroce, impietoso con tutti, e l'altro, quello col riporto disobbediente, hanno l'aria feroce.
Gli altissimi corazzieri, coi loro cimieri argentati e i lunghi pennacchi pendenti, sono certo, staranno attenti nello svolgere il loro servizio di guardia.
Stasera lo sento, quanto sono importanti.
Ma può bastare un istante.
Un caso.
Un incidente inopportuno.
Se il vecchissimo, fragile, presidente della repubblica dovesse avere un mancamento, un malore, un piccolo colpo...
Alle volte alla storia basta solo un piccolo aiuto.

Caro figlio mio, stasera ancora non sai cosa sta ormai accadendo, qui, in questo povero, infelice, paese.
Dopo le offese alle mortificate istituzioni repubblicane, il capo ha ringhiato alle televisioni riunite a reti unificate.
Ha fatto un appello alla nazione.
La faccia smorta di ieri è mutata in una maschera assetata di vendetta feroce.
La bocca si è stretta in una smorfia cattiva.
Con la studiata voce pacata dei potenti che sanno trattenere sapientemente il livore, ha annunciato la riforma della giustizia.
Dai suoi occhi guizzavano vampe di fuoco.
Per il nostro bene, ha aggiunto, per il paese che ha detto di amare.
Dalle sue larghe volitive mascelle si spandeva nel paese, ipnotizzato dinanzi agli schermi televisivi dentro tutte le case, una strana perversa energia.
Come una rabbia repressa.
Una vendetta sua personale da consumare a nostre spese, col sacrificio d'ognuno di noi.
Io ho sentito, mio caro figlio diletto, un brivido scorrermi lungo la schiena.
Ho sentito, come si dice, un tintinnare di sciabole.
Ed ho capito.
Il messaggio del capo diceva che ormai la storia aveva cambiato registro.
E' incominciata una nuova era per questo paese.
Ed ho immediatamente spento il  pauroso apparecchio che teniamo appeso, a casa, sul muro della cucina.
Ed ho deciso di scriverti subito.
Di mandarti in fretta questo messaggio prima che chiudano ogni canale di comunicazione con il resto del mondo.

Non ci avevo mai pensato, mi figlio adorato, a quello che avrei avuto da dirti in un momento importante come questo che abbiamo davanti.
Non pensavo potesse arrivare un momento così.
Abbiamo studiato ed io stesso mi sono assicurato che anche tu potessi avere la stessa fortuna di non esser derubato della coscienza.
Io, del resto, da padre, ho il dovere di vegliare sulla tua cosceinza.
E' un dovere che va al di là di ogni oggettività, d'ogni scientifica dimostrazione.
Io dovevo, ho dovuto, per essere l'uomo che penso di essere, investire su di te per non fati restare solo un piccolo indifeso schiavo in balia degli eventi.
Conoscere il mondo, la storia, i principi della morale.
Questa è l'eredità più preziosa che mai potrò un giorno lasciarti.
Non ci avevo pensato, ma ora mi pare chiaro, comunque.
Devo ingiungerti di restare ancora un poco nascosto.
Devo farti arrivare questo messaggio al più presto.
Devo convincerti a prendere parte, da lì, dal paese straniero dove adesso ti trovi, all'impegno di resistere con ogni forza a questa tragedia che sta travolgendo il paese quaggiù.
Occorre che tu sappia e racconti.
Devi far conoscere ciò che sta accadendo quaggiù.

Domani potrebbe essere già tardi, per noi.
Potrebbero spegnere ogni comunicazione col resto del mondo.
Interrompere tutti gli scambi e le transazioni.
Chiudere la borsa.
Mutare la moneta.
Corrompere le istituzioni.
Domani mattina, nel silenzio d'un torrido giorno di ferie d'agosto, potremmo sentire i cingolati stridere lungo i solitari viali alberati.
Prima dell'alba del nuovo giorno che schierà domani mattina, le forze dell'ordine potrebbero compiere agguati, piombar nelle case in cui saremo, fra poco, andati a letto, stanchi e annoiati,  appena un poco inquieti.
Potranno portarci via in catene, piangenti le donne, ingrugniti ed ignari, noi, in mutande, uomini nudi, urlanti di sonno i poveri inermi bambini.

Domani tu devi esser già pronto.
Ora vai.
Questo messaggio varcherà come un lampo l'etere notturno che trasmette nel mondo i segnali delle onde 
elettromagnetiche.
Tu potrai accoglierlo fra le tue mani come una colomba che viene dal cielo del tuo paese lontano.
Non crederai, sulle prime, a quanto ci sta succedendo.
Faticherai a mettere a fuoco questa così terribile notizia che viene dal mondo che appena ieri allegramente lasciasti per una breve vacanza.
Crederai che sono impazzito.
Penserai che c'è qualche errore, che i fatti sono stati involontariamente travisati dall'animo acceso del tuo povero padre.
Ma poi, alla fine, anche tu capirai.
Sei tu la nuova fiaccola accesa.
Sei tu la mia fiamma.
Per favore, per amore, tieni alto l'onore povero nostro.
Fallo per me.
Fallo per tua madre.
Ma fallo soprattutto per te.

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